Storia di Carunchio Domenico, di Taranto

 

foto da: http://www.tarantonostra.com

Ho finito di leggere da poco "Terroni" di De Cataldo. Le sensazioni sono contrastanti, il punto di vista diverso rispetto quello dell'autore.

Questo, invece, è uno dei probabili punti di vista, una delle possibili sorti, di Carunchio Domenico ex compagno di scuola di De Cataldo.

 

Storia di Carunchio Domenico, di Taranto

  

Il rumore degli 800 cavalli irrompeva nel silenzio quasi innaturale del Mar Grande.

Faceva freddo quella sera. Un freddo gelido.

25 febbraio 1988.

Taranto.

Al largo di Mar Grande.

Ultimo viaggio di Carunchio Domenico detto M’ngucc, contrabbandiere, incensurato.

 

Il vento gelido gli tagliava la faccia, lui però rimaneva lì, immobile, ad osservare le luci della città che si avvicinavano velocemente.

Si aggiustò il cappellino di lana sulla testa, sistemò il bavero dell’impermeabile fino a coprirsi il viso, ritornò ad osservare…e a pensare.

“Ormai è finita” pensò e non si riferiva solo al lavoro di quella sera che ormai era andato a buon fine.

Si grattò i coglioni.

A pensare bene in anticipo ci si tirano addosso le peggiori sciagure e in quei dieci minuti che dovevano ancora passare affinché il carico fosse al sicuro, nel ventre della città vecchia, poteva ancora succedere di tutto.

Ma, appunto, non era solo il viaggio ad essere finito ma proprio la storia, la sua e quella dei suoi compagni.

Il messicano ormai aveva perso, solo gli stupidi non se ne erano accorti.

Lui, Domenico Carunchio, da tutti conosciuto come M’ngucc, non era affatto un fesso. Aveva capito da tempo il vento che tirava e si era organizzato.

No, non avrebbe tradito come tanti stavano facendo. Doveva tutto a u’ m’sscan e lui, M’gucc, era un uomo d’onore, agli amici non li tradiva.

 

Sarebbe semplicemente scomparso.

Senza tradire! Ma senza neanche combattere.

Non era la sua guerra quella, non lo era più da un pezzo. Almeno da quando aveva fatto il galoppino, qualche anno prima, per un politico democristiano.

Il marito della signora impellicciata.

 

La mente gli tornò ad anni prima. Molti anni prima.

Un altro Carunchio Domenico, goffo e piccolo, attraversa il corridoio formato dai banchi. Dal fondo verso la cattedra.

La classe intona “po-ve-ro”, “po-ve-ro”.

Lui fa finta di non sentire. Cerca di camminare a schiena dritta, sorridendo. Lo stomaco è in subbuglio, la rabbia gli si gonfia dentro.

Vorrebbe tirare fuori il suo coltellino, far scattare la lama e infilzare uno per uno prima i suoi compagni poi le zoccole impellicciate infine il maestro.

Trattiene la rabbia, si sente nelle orecchie le raccomandazioni della madre: “No t’ fa acconosc!”

Prosegue dritto e finto verso le signore impellicciate, ritira il pacco dono per i bambini poveri, torna a sedere.

Suona la campanella. La scuola è finita.

 

Carunchio Domenico si avvia mogio verso casa. E’ rabbioso e impaurito. Non si è mai vergognato così tanto, non ha mai provato tanta rabbia come quando si è visto indicare dal ditino di quel biondino che non sapeva far altro che piangere.

“Cù aven aqqua c’ ten u’ curaggje. Cù aven aqqua a dic’ u’ povr è chidd! L’ n’tram a sasizz l’ fazz!”

E, già, perché nel suo habitat, la città vecchia, Carunchio Domenico non era mica il bimbo mogio e silente della scuola. Li era così solo perché glielo aveva imposto sua madre. “No t’ fa accanosc!” gli diceva sempre. E con quelle poche parole intendeva tante cose: non rispondere male, non menare nessuno, sii educato, ecc. Carunchio Domenico aveva risolto il problema alla radice, riducendo la comunicazione all’indispensabile. Non gli interessava molto socializzare con quei figli di papà che andavano in classe con lui, i suoi amici li aveva vicino casa.

Le camminate scalzi, la caccia a lucertole e ratti, le interminabili partite a u’spzzill nel vicolo, i bagni in mare fuori stagione erano tutte cose che non avrebbe mai fatto con i suoi compagni di scuola. Che cazzo se ne fotteva di parlarci?

 

Attraversò il ponte girevole, la piazza. Imboccò per via duomo. Si perse nei vicoli.

Davanti la porta di casa le lacrime gli avevano riempito gli occhi. Il pacco che gli avevano dato a scuola gli copriva il volto. La madre non appena lo aveva visto gli aveva chiesto, intimorita che si trattasse del frutto di un furto, “Cè puert M’ngù?”. Lui aveva lasciato cadere il pacco e le era corso incontro abbracciandola e scoppiando a piangere.

 

Non c’era verso che spiegasse perché, continuava solo a frignare ed era strano perché quel bambino non aveva pianto spesso.

Ad un certo punto il padre, che nel frattempo era arrivato, cominciava ad innervosirsi e minacciava di schiaffeggiarlo se non si fosse deciso a smetterla di piangere e a parlare.

In suo soccorso arrivò suo nonno che, da quando era rimasto vedovo, “pranzava” ogni giorno con loro. “L’avit’a lassà stà stù povr piccin?” urlò. Poi prese Minguccio sotto braccio, gli indicò l’uscio e disse “Avin bell. Avin cù u’nonn! Dimm a me ci è stat u’ pezz d’ merd ca t’ha fatt chianc?”

 

Uscirono. Il sole aveva invaso quel primo pomeriggio di dicembre. L’aria era tiepida.

Smise di piangere e cominciò a passeggiare con il nonno. In silenzio.

Dopo qualche minuto disse: “U’ nò ma nù piccè sim povr?”.

Stupito dalla domanda il nonno non seppe dire altro che “Ah? C’è v’è acchiann?”

Gli raccontò quanto gli era successo a scuola. Pianse di nuovo.

Quando si fu calmato il nonno gli sorrise e disse :”Nò t’ preoccupà figghje, prim o po’ mà t’né l’cap lor sott’all piet!”

 

Passeggiarono, poi il nonno lo portò vicino la chiesa di San Michele.

“U’nò cè m’ha sce fa do u’ prevt?”

Il nonno gli sorrise e gli disse che non andavano in chiesa, “C’è t’è scurdat ca a me l’ prievt m’ fann r’vutà l’ntram?”

Si sedettero sui gradini.

Silenzio.

“Aqquà hon cis Colin, l’amiche mije!”

“L’hon ‘ncurtddar no?”

“No, l’hon sparat! L’carabinier!”

Gli raccontò che quando aveva la sua stessa età, quasi sessant’anni prima, in città era scoppiato il colera.

Nessuno voleva più il pesce e i frutti di mare di Taranto.

I pescatori erano affamati e le ditte che gestivano la pesca e l’allevamento cominciavano a licenziare gli operai.

Suo padre, che lavorava alle ostriche, era stato licenziato con altri operai. La gente si era ribellata. Erano scesi in strada, con le mogli e i figli.

I carabinieri erano intervenuti e avevano sparato: diversi feriti e tre morti, uno di loro era il suo amichetto Colino, Nicola Morrone, aveva otto anni.

 

“U’ nò e c’è c’entr stu fatt?” chiese Carunchio Domenico al nonno

“C’entr piccì! C’entr! Chidd, l’cumbagn d’scola toje, a’ nù n’ voln sott! Senz la fatja nosctr lor nò tenen nind! Quann nà r’bllam n’fann accidere, com a Colin!” – rispose il nonno con voce grave – “Ma no a ess sembr accussì! Sciamn mò, sciamn a cas, scià manciam!”

 

Mentre tornavano verso casa il nonno gli raccontò un’altra storia.

Che quando lui era giovane, poco dopo la prima guerra, per qualche giorno loro avevano comandato in città. Si erano ribellati e “lir’a vet figghje come fucevn chidd pezz d’ merd d’commerciant e avvocat alla cam’r d’ù lavor a cunsgnà l’ chieje d’ l’ puteje.”.

 

Era il 1919. Il cinque di luglio. Il popolo si era ribellato spontaneamente. Stanco dell’attendismo del sindacato e del Partito Socialista.

Il carovita era insopportabile e l’arsenale e i cantieri licenziavano.

La gente era scesa in strada e aveva imposto il ribasso dei prezzi al mercato coperto.

Un mercante aveva minacciato i manifestanti con la pistola: quasi lo linciano, viene salvato solo dall’inizio del saccheggio.

I cittadini si autorganizzano. Squadre di operai e “ciclisti rossi” controllano la città. Le vendite vengono disciplinate dal comitato degli insorti.

Scatta la repressione. I combattimenti e gli scioperi durano per quattro giorni. Mentre carabinieri e polizia sparano sui dimostranti reparti della marina solidarizzano con essi.

Tutto si conclude il 9 luglio con la liberazione degli arrestati.

Taranto in quei giorni ha perso quattro figli.

 

“U’ nò ma allor n’accitn sempr!” disse Carunchio Domenico interrompendo il racconto del nonno.

“T’agghje ditt’ cà prim o po’ m’ha t’né l’ capa lor sott’a l’ piet!” troncò il discorso il nonno.

 

Sorrise mentre il vento freddo del mare gli tagliava la faccia. Quel giorno aveva abbandonato la scuola ma non aveva certo smesso di imparare, anzi proprio quel giorno aveva imparato molto. Aveva capito chi era il nemico.

 

Ricorda il racconto del nonno, quello dei commercianti che impauriti consegnano le chiavi dei negozi.

Sorride di nuovo, ricorda che mentre il nonno glielo raccontava aveva pensato che un giorno le avrebbero consegnate a lui le chiavi.

Altro sorriso.

Le chiavi gliele avevano consegnate per davvero! E non per un paio di giorni, per più di dieci anni!

 

Aveva conosciuto Tonino il messicano a una riunione di Lotta Continua. Era il ’72, forse il ’73.

A dire il vero già lo conosceva, chi non conosceva Tonino a Taranto vecchia? Però lì, in quella riunione, avevano fatto amicizia se così si può dire. Si erano trovati.

Tonino si era ricordato di lui qualche anno dopo. Ormai erano finiti i tempi di Lotta Continua ma lo spirito con cui si erano lanciati nella nuova impresa era lo stesso, ridare dignità (e soldi, che spesso ne sono sinonimo) alla loro gente.

Tonino gli aveva consegnato un peschereccio. Gli aveva detto che i proventi del pesce erano al 25% suoi il resto per pagare i ragazzi di bordo e per l’organizzazione.

Lui doveva pescare e, quando gli era richiesto, incrociare qualche imbarcazione, ritirare la merce, sbarcarla assieme al pesce e consegnarla ai ragazzi per lo smistamento.

Questo era stato il suo compito.

Certo aveva svolto qualche altro lavoretto per il messicano: far saltare un negozio che non paga, andare a riscuotere la rata del prestito da qualche commerciante, fare la vigilanza a qualche finanziaria della banda. Prevalentemente però aveva pescato e sbarcato merce.

 

Era in quegli anni che la città sembrava loro. Che gli sembrava di rivivere nel racconto del nonno. Anche a lui molti commercianti avevano consegnato le chiavi.

 

A un certo punto però aveva cominciato a non capire. Era entrata altra gente. C’era di mezzo la politica. Giravano molti soldi. Spesso aveva avuto l’impressione che il messicano stesse perdendo il controllo ma non era certo suo compito farlo notare.

Lui, del resto, al messicano doveva tutto. E come lui tanta altra gente.

 

Improvvisa scoppiò la guerra tra bande. Il messicano era diventato troppo ingombrante per i politici e molti gregari aspiravano ad essere boss. Inoltre con quella sua mania di non voler trafficare eroina in città intralciava gli affari con le altre organizzazioni forestiere.

 

Carunchio Domenico decise che quella guerra non l’avrebbe combattuta, non era la sua.

“U’ no a nù n’acciten sempr ma a me nò m’facien fess!” pensò.

 

Ora non restava che raggiungere la stazione con la moglie e la figlia.

Treno per Roma delle 23.55.

Poi in autobus fino a Firenze.

Li avrebbe trovato il compratore.

Cinquecento diamanti grezzi gli avrebbero fruttato una bella cifra e il giorno dopo aveva già fissato l’appuntamento per acquistare un ristorante in un paesino del centro Italia. In contanti. Il resto lo avrebbe depositato a poco a poco dopo l’apertura dell’attività.

A Cecilia, sua figlia di sei anni, nessuno avrebbe detto mai che era povera.

Il treno parte.

Carunchio Domenico mette la mano fuori dal finestrino, fa un saluto alla sua città. Dopo tutto gli mancherà. Poi chiude la mano, lascia teso solo il medio “Scià pigghjatvlà n’gul politici, giudici, sbirri e delinquenti. Carunchio Domenico è vivo, incensurato e non è più povero. E prima o po’, ci no je ha ess figghjeme, mà turnà piccè prima o po’ m’ha t’né la capa vostr sott’a l’ piet! E’ ver u’ no?”.

Accarezzò la figlia che dormiva in braccio alla moglie, poi abbracciò la moglie e sorrise facendo intravedere i denti d’oro che negli anni avevano sostituito quelli marci.

 

Centro Italia. 20 luglio 2008

 

Gli scappò una bestemmia nel suo dialetto d’origine allo scrittore poco più che cinquantenne. Era da molto che non gli capitava.

Orientarsi fra quei paesini e quelle strade contorte non era facile.

Infatti si era perso.

Era ora di pranzo.

Decise di fermarsi in quella frazioncina per mangiare. La presentazione del libro era alle cinque, aveva ancora tempo. Avrebbe chiesto informazioni all’osteria.

Vide in lontananza un’insegna. Parchèggiò all’ombra di una quercia e scese dall’auto.

Il caldo era opprimente. Quasi gli ricordava casa sua o, meglio, dove era nato.

Si avviò verso l’insegna di cui non scorgeva bene i caratteri. Man mano che si avvicinava non gli pareva potesse essere vero. Si fermò, stropicciò gli occhi. Si, c’era scritto proprio così: “Da u’ tarantin. Specialità di mare e di terra. di Carunchio Domenico, Pignattella Carmela & figli”

Si avviò all’entrata, sulla porta un cartello scritto a penna, in grafia elegante: “Come ogni anno da sette anni oggi è chiuso in segno di lutto per Carlo Giuliani, ucciso dai ricchi” a seguire le firme:

Cecilia Carunchio

Cataldo Carunchio

Carunchio Domenico

Pignattella Carmela

         

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